RACCONTARE UNA STORIA: Trucchi e tecniche dai miei corsi di scrittura, fra libri, fumetti e film

CONSIGLI ALLA RINFUSA PER ASPIRANTI SCRITTORI
di Giovanni Del Ponte

Il primo consiglio che mi sentirei di darti è: spegni il computer, esci, vivi! Se vuoi diventare una creatrice o un creatore di storie, è importante accumulare esperienze, conoscere più gente possibile di culture diverse o che semplicemente la pensi diversamente dalla nostra famiglia e dai nostri amici. Più che nei centri commerciali, passa il tuo tempo nei centri sociali. È importante per essere poi in grado di dare vita a personaggi realistici e credibili. Soprattutto, arricchirai la tua interiorità e avrai più cose da esprimere.

Il tema

Sono d’accordo con Alan Moore, quando sostiene che le nostre storie debbano parlare di qualcosa. Se anche all’inizio non ne avrai ancora individuato l’argomento, a un certo punto dovrai chiederti: “Di cosa parla la mia storia?” Focalizzato il cosiddetto tema, sarà più facile eliminare ciò che non è indispensabile. Lo so, cestinare pagine o concetti a cui teniamo ci fa soffrire, ma potrai benissimo recuperarli in un’altra storia.

Coerenza

Questo ti aiuterà a mantenere coerenza e a non perdere di vista i concetti etici e morali che stanno alla base delle azioni dei tuoi personaggi. Pensa al film “Avatar” di James Cameron. Il messaggio sul quale il regista sembra insistere vorrebbe essere di stampo pacifista. È esemplare, in questo senso, la scena in cui il protagonista terrestre pensa che i nativi del pianeta debbano domare i volatili di cui si servono come mezzo di trasporto, così come sulla terra si fa con i cavalli. La navi però gli spiega come loro non sottomettano le creature alate, ma ne cerchino piuttosto una comunione di tipo spirituale, una sintonia basata sull’accettazione e il rispetto reciproci. Un bellissimo esempio di spiritualità laica. Il guaio però è che più avanti nel film, quando il terrestre dovrebbe instaurare questo tipo di rapporto con la più straordinaria di queste creature, non trova di meglio da fare che saltargli in groppa al grido di “Ora sei mio!”

Le pellicole di fantascienza hollywoodiane sono piene di scivoloni di questo tipo, in cui l’etica e la morale dei personaggi (e quindi degli autori stessi) si rivelano solo di facciata o, per lo meno, possono essere sacrificate per “esigenze narrative” o di spettacolarità. È vero che il pubblico sembra disposto a lasciare momentaneamente passare certe incongruenze in cambio di una soddisfacente dose di azione e di effetti speciali, ma l’opera non reggerà a una riflessione a mente fredda, con gli amici all’uscita del cinema, ed è un peccato.

I personaggi

Sono convinto che in una buona storia a contare davvero, più della trama, più dei colpi di scena o, al cinema e in tivù, più degli effetti speciali, siano i personaggi. Se non ci sentiamo coinvolti in prima persona nelle vicende emotive dei protagonisti, rischiamo di rimanere indifferenti.

Un trucco che utilizzo per facilitare l’immedesimazione del lettore ritengo di averlo appreso da Stan Lee, il creatore dell’Universo Marvel (quello di Spider-Man, Hulk, Wolverine e gli X-Men, degli Avengers, dei Fantastici 4 ecc. ecc.), ovvero l’inventore dei supereroi con super… poteri? No! Superman e Batman c’erano già. Lui ha inventato i supereroi con super problemi: se ci fai caso, per la maggior parte di essi, il superpotere è più un handicap o un dramma personale che non un vantaggio. Fu questo a decretare il loro successo, perché i lettori riuscivano a immedesimarsi nelle loro difficoltà e vicende quotidiane.

Pertanto, una delle prime cose a cui penso, creando un personaggio, è di dargli un handicap, un punto debole: in Acqua tagliente, che si svolge in un parco acquatico popolato da mostri, uno dei personaggi principali non solo non sa nuotare, ma ha addirittura il terrore dell’acqua. È chiaro che, prima della fine, dovrà fare i conti con il proprio handicap: sarà allora che diventerà interessante e indurrà il lettore a sentirsi in apprensione per lui, a chiedersi “ce la farà?” Tutto questo è coinvolgimento emotivo.

Abitualmente nella scrittura preferisco iniziare a scrivere dal primo capitolo e quasi mai affronto un capitolo senza avere terminato quelli precedenti e questo sempre a causa dei personaggi, che devo veder crescere poco alla volta. Le loro caratteristiche fisiche e psicologiche devono essere strettamente legate alla storia (ad esempio, nel film con Audrey Hepburn “Gli occhi della notte”, l’intera vicenda è incentrata sul confronto fra una non-vedente e l’assassino che le è penetrato in casa). Probabilmente risulteranno più interessanti i personaggi che subiranno una maturazione nel corso dell’avventura che modificherà il loro atteggiamento e modo di pensare.

Riassumendo, prova a rileggere i tuoi libri preferiti e a studiare come fanno gli autori a coinvolgerti in quanto accade ai personaggi. Penso noterai lo spazio che viene dedicato ai loro pensieri, ripensamenti, alle loro debolezze e alle emozioni in generale…

Inoltre ti consiglierei di caratterizzare in maniera diversa ognuno di loro, non solo attraverso il modo di pensare e di comportarsi, ma anche nei dialoghi, affinché il lettore possa capire chi sta parlando senza che tu debba in continuazione specificare “disse Tizio”.

Fuoco!

È fondamentale che il tuo lavoro abbia il fuoco dentro. Scrivi sempre e solo di qualcosa che ti infiamma, per amore di una persona, di un animale, di uno sport o di un ideale, mantenendoti fedele a esso. Se creerai con passione, su argomenti che ti esaltano o che ti indignano, sarà anche tutto molto più facile, il racconto si scriverà da sé.

Anche per questo è fondamentale accumulare esperienze, fare di te un essere umano più profondo e consapevole, perché quando creerai non potrai che attingere a te stessa/o.

Originalità

Il fatto di piacere o di essere originali sono falsi problemi. Gli storici della letteratura ci spiegano che tutti noi non facciamo altro che rielaborare le storie su cui si fonda la nostra tradizione. Per noi occidentali sono i racconti delle imprese eroiche e i miti degli antichi greci. Non facciamo altro che mettere in campo Ercole, rivisitarne un po’ il look e anziché semidio chiamarlo supereroe, ma alla fine le storie sono sempre quelle. Se vuoi che il tuo lavoro esprima qualcosa di unico, scordati l’originalità. Sono convinto che ognuna delle persone vissute, che sono vive oggi o che ci succederanno domani, avranno qualcosa che le renderà uniche. Magari fra di noi ci somigliamo, questo sì, possiamo perfino possedere dei gemelli, ma sotto sotto ognuno di noi ha qualcosa che lo rende diverso da tutti gli altri. La tua sfida allora non sta nell’essere originale, ma nel mettere te stesso nella tua opera, che potrà ricordarne mille altre, ma avrà così qualcosa di unico.

Il successo

D’accordo, ma alla fine ciò che vuoi sapere è: come si fa a piacere? Ad avere successo? Anche questo non deve preoccuparti troppo. Ho l’impressione che possa piacerci solo l’opera delle persone con le quali ci sentiamo in sintonia. Si tratta di risonanza, di frequenze, come cercare i canali alla radio. Se sarai stata/o sincera/o, ci sarà senz’altro qualcuno sulla tua stessa lunghezza d’onda che si sentirà toccato da quanto avrai scritto.

Verità

C’è qualcos’altro da aggiungere su questo discorso della sintonia. Se in un racconto qualcosa ti risuona e lo percepisci come una profonda verità, sono convinto che sia perché quella verità dentro di te c’era già. Mi sentirei addirittura di escludere che una qualsiasi verità che ti sarà rivelata dal più grande pensatore del mondo risuonerebbe dentro di te, se non fosse già presente. Del resto lo stesso verbo “risuonare” implica un’eco, una reciprocità, una restituzione. Il valore dell’arte o dell’artista sta proprio nel fornirci la chiave o la via per raggiungere quella profonda verità. Per mostrarci nuovi modi in cui le informazioni di cui disponiamo possano interconnettersi fra loro.

Ruba!

Se leggerai un libro che ti sconvolge perché ci ritrovi un profondo significato, allora avrai tutto il diritto di appropriarti di quella storia e del suo significato, di farli tuoi, perché in fondo ti appartiene già. Del resto, nel momento stesso in cui gli artisti decidono di consegnare al mondo le loro opere, perdono qualsiasi diritto su di esse. Tutti gli altri ne divengono altrettanto proprietari e non è assolutamente detto che un autore debba avere più voce in capitolo su cosa abbia voluto esprimere rispetto a una qualsiasi altra persona che ascolterà, vedrà o leggerà la sua opera. E non è raro che siano gli altri a rivelargli il significato nascosto. A me capita spesso. D’accordo, io non farò molto testo, ma sono convinto che questo valga anche per autori più… autorevoli.

Chi ben comincia…

Se perciò non sai da dove cominciare, ti consiglio di scegliere una storia (libro, fumetto, film…) che ti abbia appassionato davvero e di provare a rielaborarne l’idea, di riscrivere il finale o di ripensare alla vicenda dal punto di vista dei personaggi secondari. Non avere paura di copiare: se sarai riuscito a metterci te stesso e i tuoi sentimenti, alla fine ti ritroverai in mano qualcosa di completamente diverso!

Ma se poi non sai decidere come iniziare, fatti aiutare da questa ruota degli incipit! 😉

 Il metodo di scrittura

Per quanto riguarda il mio metodo di scrittura, prima di iniziare un nuovo romanzo sviluppo la trama in due paginette, poi in una scaletta suddivisa in capitoli con la descrizione di ciò che dovrebbe accadere; in questo modo ottengo una visione d’insieme che mi aiuterà a capire se valga la pena raccontare la storia, prima di iniziare a scriverla. La scaletta è odiata da grandi autori come Stephen King e Ray Bradbury perché sostengono che tolga spontaneità a vicenda e personaggi, mentre amata da altri come Terry Brooks secondo i quali, se non la si fa prima, la si deve fare comunque dopo, quando ci si trova appunto impelagati da qualche parte e si devono tirare i fili di quanto abbiamo scritto (proprio King è un esempio lampante di un autore che in certi casi pare non sapere più come cavarsi d’impaccio ed è costretto a buttare un finale non all’altezza del resto del libro). In ogni caso, per non soffocare i personaggi, sono sempre pronto a modificare la scaletta quando questi “prendono vita” e pretendono di andare in direzioni che non avevo preventivato.

La scaletta ha anche un’altra utilità: ritengo che la trama debba essere sviluppata come una composizione musicale in cui non siano presenti stonature. Avendo sott’occhio in poche pagine l’intero svolgersi della vicenda, è più facile rendersi conto se tutti gli elementi siano adeguatamente bilanciati. Se sono soddisfatto, se “il film” che vedo nella mia fantasia mi pare avvincente, allora comincio a scrivere il libro, capitolo per capitolo.

Un trucco per capire se la nostra vicenda è bilanciata può consistere nell’assegnare un colore alle varie atmosfere. Per esempio, potremmo scrivere in giallo le parti in cui si svolge l’indagine, il rosa le scene romantiche, in rosso le scene horror ecc. ecc. Basterà un’occhiata per rendersi conto se dove un’atmosfera sia troppo presente o manchi per troppo tempo.

Grammatica e sintassi: un optional?

Attenzione a grammatica e sintassi! Metto il punto esclamativo perché mi sembrano entrambe sottovalutate. Forse anche perché siamo ormai abituati a infarcire i nostri messaggini di errori e mozziconi, che intanto ci si capisce lo stesso. Verissimo.

Se però quanto ci auguriamo è che il lettore venga catturato dalla nostra storia, che ci resti immerso il più a lungo possibile, mantenendo per tutto il tempo la sensazione che i personaggi siano persone reali, allora non potremo essere sgrammaticati. Altrimenti, a ogni errore, il lettore compirà di riflesso una correzione (o, se non ne sarà in grado, rimarrà comunque spaesato). D’accordo parliamo di “emersioni” momentanee, ma resta il fatto che lo avremo sbattuto fuori dal racconto, come se gli avessimo urlato: “ehi, guarda che questa non è la realtà, stiamo solo facendo finta!”

A proposito: questo discorso vale anche per peccatucci come l’EHI scritto HEI o HEY; per la risata scritta HA HA HA, o in altri mille modi, anziché AH! AH! AH! Tutte cose da nulla, nessuno ci rimprovererà per questo, però… Però dipende. Vuoi davvero concedere tregua al lettore? Permettergli di distrarsi anche solo per un attimo? Guarda caso è proprio in un attimo che gli verrà l’idea di chiamare quel suo amico, di rispondere a un’e-mail, a un post… E ciao ciao lettore.

I dialoghi

Su come restituire una sensazione di realtà nei dialoghi esistono molti equivoci. Tra i più frequenti l’inserimento di parolacce e – ci risiamo – sgrammaticature, ricorrendo alla giustificazione “ma nella lingua quotidiana, mica parliamo come un libro stampato!”. Forse no, ma non ci esprimiamo nemmeno tutti come i trucidi dei film di Tarantino, tant’è vero che ci fanno ridere. Se ripensiamo ai personaggi interpretati da Bud Spencer in film come “…Più forte ragazzi!”, di certo ricordiamo di avere avuto l’impressione di un parlato piuttosto realistico, di certo non forbito; eppure non ricorre praticamente mai a parolacce. Lo stesso dicasi per molti personaggi dei romanzi di Stephen King, autore molto bravo nei dialoghi: lui fa ricorso alle parolacce, ma è abile nel dosarle. A meno che il nostro non sia un romanzo alla Joe Lansdale (e allora dovremo rendere il tutto esplicito e ironico), se i nostri personaggi si esprimeranno con le volgarità e le storpiature del linguaggio quotidiano, non sembreranno persone normali, ma individui fastidiosamente stupidi, superficiali e insopportabilmente volgari. Un bambino che si esprimerà con l’abituale linguaggio dei ragazzini alle elementari, non potrà non ricordarci la piccola protagonista dell’Esorcista! Perciò, se vogliamo restituire una sensazione di realismo, non guardiamo alla realtà, ma andiamo a rileggerci e a riascoltare quel parlato che in passato ci ha colpito per verosimiglianza e che, in fondo, stiamo cercando di riprodurre.

Pagina bianca e scrittura automatica

Molti lettori mi scrivono per avere un consiglio su come superare il classico blocco dello scrittore, il panico da pagina bianca… o perché semplicemente non sanno da dove iniziare. Quello che ti sto per proporre è appunto un gioco divertente che ha il potere di sbloccarmi quando mi trovo in simili situazioni. Si chiama “scrittura automatica” e l’ho scovato, insieme ad altri esercizi per cominciare a scrivere, nell’illuminante manuale “Scrivere Zen” di Natalie Goldberg – Ubaldini Editore. Funziona così: devi regolare una sveglia in modo che suoni dopo (almeno) 10-15 minuti, poi prendi la penna e inizi a scrivere partendo da questo spunto: “Io torno a casa e…” Già, ma il bello è che devi scrivere in continuazione, senza mai smettere, qualsiasi cosa ti passi per la testa. Il punto è che in questo modo la mente non riuscirà più a star dietro a ciò che scrivi e, dopo un po’, comincerai a scrivere cose che mai ti saresti aspettata/o, e che magari non credevi nemmeno di pensare! Provare per credere.

La revisione

Questa è una delle fasi più importanti e allo stesso tempo più personali, perciò mi limiterò a riassumere il mio metodo, senza però pretendere che si adatti a pennello a chiunque altro.

Quando ho terminato il libro, inizia il lavoro di revisione. Abitualmente revisiono quando sto ancora scrivendo: asciugo (cioè taglio) il più possibile e ricorro al dizionario dei sinonimi e dei contrari alla ricerca dei termini più appropriati per consentire al lettore di visualizzare rapidamente quanto gli sto raccontando. Scoprire una parola che mi permette di riassumerne diverse è per me una vera e propria conquista: se il lettore avrà meno parole da leggere, si stancherà meno e diminuiranno le possibilità che posi il nostro libro… per magari non riprenderlo mai più!

Terminato il lavoro di revisione, stampo il testo in cartelle (cioè 30 righe per pagina, 60 battute per riga, spazi inclusi, a interlinea 1,5) e spedisco il tutto alla mia editor Anna Lazzeri.

I libri “di genere” come i miei devono essere meccanismi il più possibile perfetti, perciò il parere dell’editor per me è importantissimo e la riempio di domande: È coinvolgente? Facile da seguire? Tutto torna? In poche parole: ho scritto un buon libro?

Fatta la sua revisione, Anna mi rispedisce il dattiloscritto con le proposte di correzione o di eventuali modifiche scritte a matita, a indicare che sono libero di accettarle oppure no (accetto la maggior parte). Sarebbe sufficiente che io spuntassi le correzioni una per una o cancellassi quelle che non approvo, ma io preferisco riportare personalmente nel mio file quelle di cui sono convinto, poi ristampo e glielo rispedisco. Quando siamo soddisfatti e sentiamo di dover discutere le cose più complesse o fare un’ultima lettura, vado a trovare Anna, che gentilmente mi ospita a casa sua per un paio di giorni, e rileggiamo tutto insieme. Come si può intuire, non sono uno di quegli autori convinti che i loro scritti siano intoccabili. Anzi, più mi si danno consigli per migliorare il testo e più sono contento.

Con questo metodo di lavoro scrivere un libro mi impegna mediamente per circa un anno, raccolta di documentazione esclusa.

Come si sottopone un manoscritto a un editore?

I manoscritti che spediamo agli editori verranno valutati dagli “editor”, termine che proviene dal mondo anglosassone e che sta a designare, in sintesi, chi valuta il lavoro degli aspiranti scrittori, decide chi pubblicare e lavora fianco a fianco con l’autore per perfezionarne l’opera.

Il problema degli editor è innanzitutto il tempo. Ti consiglierei perciò di preparare:

  1. una brevissima lettera di accompagnamento (perché hai scritto il libro? Quali sono, a tuo parere gli elementi che potrebbero attirare pubblico? Perché lo giudicheresti adatto a quella specifica casa editrice? O, semplicemente, perché vorresti figurare nel loro catalogo?).
  2. Un pitch efficace in una sola frase. Ma che cos’è un pitch? Prende il nome da elevator pitch, che (citando Wikipedia) è:

    Un tipo di discorso ed una forma di comunicazione con cui ci si presenta, per motivi professionali, ad un’altra persona o organizzazione. Questo discorso viene spesso convertito in forma scritta.
    Elevator significa ascensore. L’Elevator pitch è infatti il discorso che un imprenditore farebbe ad un investitore se si trovasse per caso con lui in ascensore. L’imprenditore, quindi, si troverebbe costretto a descrivere sé e la propria attività sinteticamente, chiaramente ed efficacemente per convincere l’investitore ad investire su di lui, ma nei limiti di tempo imposti dalla corsa dell’ascensore (la letteratura specialistica al riguardo fissa tale limite a 5 minuti).
    È considerato come un documento da aggiornare costantemente e “sfoderare” ad ogni buona occasione, che sappia “dare valore” ad ogni singola parola.

    Per quanto riguarda la narrativa, quindi, è l’esposizione, in una sola frase (o poco più, ma meglio una), dell’idea che sta alla base della storia che abbiamo scritto (o che vogliamo scrivere). Una storia veramente buona non necessita di maggiore spazio. Un esempio? Ecco il pitch del film La vita è bella di Roberto Benigni: “Per salvare il figlioletto dall’orrore di un campo di concentramento nazista, il padre gli fa credere che tutto ciò che vedono è parte di un grande gioco in cui dovranno affrontare prove tremende per vincere il meraviglioso premio finale…” Un pitch può tuttavia presentare, anziché la trama, l’argomento del libro: non conosco le modalità degli esordi dello scrittore Mauro Corona, ma immagino che al suo editore sia bastato sapere che il suo libro avrebbe raccontato dei suoi ricordi di come si viveva un tempo in montagna (e non una montagna qualsiasi, ma quella spazzata via dalla tragedia del Vajont).
    Se fare il pitch ci risulta difficile, può darsi che la nostra storia non abbia un’idea di fondo particolarmente forte o che non possegga un tema o un argomento di fondo abbastanza chiaro o, all’opposto, ne possegga troppi…).

  3. Una trama in meno di mezza pagina (che, ovviamente, deve contenere il finale: non stiamo tentando d’incuriosire un lettore, ma di fornire a un commerciante strumenti che lo rassicurino su di un buon risultato in termini di gradimento e vendite del nostro prodotto).
  4. Un’altra trama in un paio di pagine.
  5. La stampa del tuo manoscritto (rigorosamente stampato a interlinea 1,5 su una sola facciata e in “cartelle” – cioè 30 righe per pagina, 60 battute per riga spazi inclusi; ovviamente spedire solo copie e non originali, perché le case editrici non restituiscono i dattiloscritti).

Dopodiché, non attenderti alcun giudizio. Non avendo tempo, gli editor raramente possono dare giudizi su ciò che leggono (per questo ci sono gli agenti letterari, ma si fanno pagare, giustamente). Se ciò che scrivi gli piace, ti contatteranno senz’altro!

Ti ricordo che un editor di un grande editore, per la maggior parte delle volte, interrompe la lettura di un manoscritto alla prima pagina. Occorre perciò sforzarsi al massimo per scrivere la migliore prima pagina possibile e indurlo a proseguire la lettura; meglio scrivere qualcosa che catturi o incuriosisca ancora prima della fine della prima pagina… Possibilmente dal primo paragrafo (se vuoi un esempio, da’ un’occhiata all’incipit de “Gli occhi di Mister Fury” di Philip Ridley – Ed. Mondadori, contenuto nel file scaricabile Incipit – Come non lasciare indifferenti). Evitare nella prima pagina anche le descrizioni, perché non coinvolgono emotivamente, e ampie considerazioni filosofiche o esistenziali; vai subito al punto e introduci già almeno un personaggio importante (un buon trucco è iniziare con un dialogo).

Infine, meglio spedire i manoscritti a case editrici che ti pare potrebbero essere interessate al tuo genere di lavoro (non saghe fantasy e chi pubblica solo libri di cucina!) e non scoraggiarti per i primi rifiuti: narra la leggenda che l’autrice di Harry Potter ne abbia ricevuti una ventina.

E gli editori a pagamento?

Nella mia breve esperienza con altri scrittori ed editor mi è sempre stato detto di non accettare proposte da case editrici che chiedono denaro in cambio della pubblicazione del nostro manoscritto. Possiamo valutare se accettare di non essere pagati alla firma del contratto, magari in cambio di una maggiore percentuale sulle vendite, ma accettare di dover addirittura pagare per il nostro lavoro, sarebbe come chiedere soldi all’idraulico perché gli permettiamo di ripararci il rubinetto!

Esagerazioni a parte, il punto è: più un editore ti pagherà, più investirà nel distribuire il tuo libro, nella promozione ecc. ecc. per rientrare dei soldi spesi. Se sei tu a pagare l’editore, perché dovrebbe rischiare un investimento per cercare di vendere il libro? A quel punto lui ci ha già guadagnato!

Comunque, valuterei con attenzione il contratto: se i diritti restano a te (e potrai in qualsiasi momento ripubblicare il manoscritto con altri editori), se ti viene garantita una distribuzione e un editing, allora potrai considerare se ingoiare il rospo e rivolgersi altrove per il libro successivo.

Spero che i miei piccoli consigli ti torneranno utili. Ogni volta che mi verrà in mente qualcosa di nuovo, prometto che te lo dirò.

Ah, un’ultima cosa: ti consiglierei di non iniziare con lo scrivere un romanzo di migliaia di pagine, ma da racconti brevi, come ho fatto io. Sono più facili da gestire per fare pratica e, soprattutto, è più probabile che tu riesca portarli a termine prima di perdere coraggio. È sempre importante finire ciò che si è iniziato. Potrai pubblicare il tuo racconto su qualche sito e ottenere un parere da chi non ti conosce, requisito importante da chi ci attendiamo un giudizio franco e schietto. Se proprio un racconto breve non ti viene, un’alternativa potrebbe consistere nello smontare il tuo romanzo in tanti racconti separati autoconclusivi.

E allora che aspetti? Dacci dentro e… Buona scrittura!

 

 

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