GEOMELODIA… o GEOFONIA: la musica dentro le montagne! L’ha scoperta un italiano, ma in cosa consiste?

Musica nelle montagne piccola

“Musica dentro le montagne??”

Mi sembra di vedere la curiosità sul volto di chi si trovi a visitare questa pagina senza avere ancora letto L’enigma di Gaia.

Se questo fosse il caso vostro, e non desideraste avere anticipazioni, vi consiglio di non proseguire, perché ciò che segue potrebbe togliervi il gusto della sorpresa!

Come ho già scritto nei ringraziamenti pubblicati in fondo al libro, l’idea della geomelodia (che ha un ruolo fondamentale nel libro) è fortemente ispirata alla geofonia, un’intuizione del geologo Alessandro Montanari che trovai fin da subito altamente suggestiva.

Nel mio libro accenno appena all’aspetto più teorico, ma questo sito mi dà l’opportunità di riportare per intero l’articolo dove incontrai per la prima volta la geofonia. Buona lettura!

LA GEOFONIA
MUSICA DENTRO LE MONTAGNE

Un musicista informatico e un geologo si incontrano a suonare. E session dopo session, viene fuori l’idea di suonare le viscere della Terra e scoprire che possono diventare un disco.

DanceLa musica che gira dentro
di Nanni Riccobono, tratto da “Diario” n. 20 (18-24/5/2001)

La Terra suona

Allegra, sommessa, fragorosa, triste. Nelle sue viscere stratificate ci sono, disposte secondo un ordine matematico, note musicali che formano ogni sorta di melodia. Note che raccontano la storia del pianeta.

Jazz on the rocks, per dire, è un pezzo melanconico che richiama alla mente un piano bar che si è svuotato, mentre il barista pulisce il bancone e c’è il pianista che si attarda sui tasti aspettando la sua ragazza, che non arriva, non arriva…

Il brano è nientemeno che la traduzione musicale delle variazioni del carbonato di calcio accompagnato da materiali detritici come il quarzo e la dolomite in una sequenza di strati calcarei sulle falesie del Monte dei Corvi. Remembering Gina invece è una cascatella di note suonate all’arpa, come il levarsi di un lieto e consueto saluto al mattino: la melodia è stata realizzata utilizzando 650 calcimetrie prelevate tra i 130 e i 157 metri dello stesso monte, per un intervallo temporale di circa 500 mila anni.

E così via. Tutto merito di Frankenstein. Così è stato chiamato il programma studiato per trasformare in brani musicali sussulti di secoli o eventi traumatici come la caduta di meteoriti. La musica della Terra si chiama geofonia ed è stata scoperta da Alessandro Montanari – un geologo di razza pura, fondatore dell’Osservatorio geologico di Coldigioco, nelle Marche – che ha lavorato in coppia con un giovane musicista e informatico, Gabriele Rossetti. Anche Alessandro Montanari suona, naturalmente.

I due si sono incontrati in un locale, hanno iniziato a familiarizzare grazie a una jam session, quel che ci vuole per stabilire rapporti tra le reciproche creatività, e, session dopo session, è nata l’idea di far suonare la Terra. Montanari precisa:

“È sempre stato il mio chiodo fisso. Un’immagine che ho sempre avuto in testa..”.

In un suo vecchio e affascinante libretto, Le rocce del Conero raccontano, nel descrivere l’evoluzione geologica della catena appenninica, la paragona a una sala da concerto: “L’antico bacino sedimentario umbro-marchigiano può essere paragonato a un registratore Hi-Fi posto alla giusta distanza dal gran concerto geologico dell’orogenesi alpina…”.

Note molto profonde

Il suo chiodo fisso sta per diventare un cd, Dance with the Earth, per la casa discografica Arte Nomade. Il disco, in uscita a fine maggio, propone i brani così come sono “scritti” dalle rocce, applicando alle sequenze stratigrafiche individuate da Montanari, un programma ideato da Gabriele Rossetti.

Il programma si chiama Frankenstein, ovvero un mostro che è stato costruito pezzo per pezzo, ed è cresciuto man mano che l’idea della geofonia e la sua consistenza prendevano forma. Seguirà un altro cd con l’interpretazione di musicisti delle melodie terragne: chissà cosa ne avrebbe ricavato Charles Mingus che, ricordate? nel pezzo Pitecantropus Erectus racconta l’uomo che, lentamente, si alza, e finalmente acquista la posizione eretta.

In questo caso il racconto è diverso, l’uomo non c’entra quasi, e affermare che la Terra suona non è una semplice trovata poetica. La geofonia è, per definizione, l’interpretazione musicale di sequenze-tempo, derivate dall’analisi quantitativa e numerica di rocce che esprimono fenomeni geologici avvenuti nel passato.

Per esempio, come la spiega Montanari, prendiamo una serie di flysh, cioè, una successione stratificata di torbiditi. La torbidite, per dirla in breve, è uno strato di arenaria che si è formato con i detriti trasportati da una corrente sul fondo del mare.

I detriti si sono mossi per via di un terremoto che ha causato il collasso della scarpata costiera. Più forte il sisma, più grande la quantità di detriti che viene giù dalla scarpata, più spesso lo strato di torbidite che si formerà col tempo. Una serie di i flysh quindi non rappresenta altro che una serie di terremoti, più o meno violenti, che si sono succeduti nel tempo.

Da questa serie/tempo si ricava una sequenza grafica rappresentata da una curva sinusoidale. Assegnando ai valori successivi di spessore degli strati un monotóno, si ottiene un suono, il cui volume aumenta o diminuisce nel tempo, proprio come nel tempo è aumentata, o diminuita, l’intensità delle scosse sismiche in successione. Il sonógramma complessivo rappresenterà l’evoluzione sismica di una particolare zona, in un periodo di tempo che è quello della serie stratigrafica analizzata.

Naturalmente, se per ogni spessore, invece del volume, si assegna una nota musicale che varia in una scala, ovviamente, musicale prestabilita proporzionalmente allo spessore degli strati, si ottiene una melodia, spesso gradevole e orecchiabile. Insomma, si ottiene della musica.

Quando la ascoltiamo, ascoltiamo la traduzione musicale di terremoti realmente avvenuti in un lontano passato. Altro esempio, di grande fascino, è la ciclostratigrafia della serie del Monte dei Corvi, sulla Riviera del Conero. Lì le rocce rappresentano ciò che una volta erano profondi fondali marini privi di materiale detritico, le cosiddette “serie pelagiche”.

Gli strati si sono depositati lentamente, nell’ordine di millimetri o centimetri per millennio, e sono costituiti per lo più dall’accumulo di gusci e resti di organismi marini che compongono il plancton. Il fattore principale che regola la produzione di plancton – e dunque anche del suo “cadavere”, il calcare – è il clima. Con il caldo il plancton si riproduce copiosamente, se fa freddo invece la sua produzione rallenta. Dunque le variazioni climatiche sono un fattore decisivo nell’interpretare una determinata serie geologica.

Orbite in movimento

Da cosa dipendono le variazioni del clima? Come scoprì il geofžsico serbo Milankovich nei primi decenni del Novecento, esse sono legate a tre cicli orbitali periodici: la variazione dell’eccentricità dell’orbita terrestre, la variazione nell’inclinazione dell’asse e la precessione degli equinozi, ovvero l’oscillazione dello stesso asse, che riesce a dare alla Terra un movimento simile a quello che fa una trottola.

Le calotte polari dunque aumentano o diminuiscono a seconda dell’energia solare ricevuta alle alte latitudini, influendo profondamente sulle stagioni (inverni caldi, estati fredde…), sulle precipitazioni o sulla siccità, a seconda dei casi, ma comunque sempre in modo ciclico, ripetuto, matematico.

La geofonia, in questo caso, traduce in musica la sequenza della sedimentazione che rappresenta i cicli orbitali della Terra e i loro effetti sul plancton in quel particolare bacino, durante un determinato periodo di tempo geologico.

Il brano Crows and seagulls, ad esempio, è stato realizzato analizzando 1840 calcimetrie della serie del Monte dei Corvi, una ogni due centimetri e mezzo, equivalenti a un periodo che va dai 12,5 agli 11,1 milioni di anni fa. La densità di materiale sedimentato viene disegnata in un grafico dove, alle due assi, da una parte corrisponde il tempo e dall’altra la densità della materia.

Alla traccia originale se ne aggiungono tre uguali, però smussate. Ed ecco che viene fuori lo spartito: alle quattro sequenze di dati, vengono assegnati degli strumenti – marimba, arpa, sitar e cristalli – e nasce una piccola sinfonia.

Grandi e piccole storie

Ci sono però anche brani che “suonano” eventi precisi, non interi pezzi di storia geologica della durata di secoli e secoli. Si intitolano Comets go round e A cross the boundaries. Nel primo sono descritti, attraverso l’analisi delle anomalie dell’iridio e dell’isotopo dell’Elio 3, tre grossi impatti che la Terra ha subito nel passato da parte di comete.

Due di questi impatti sono stati associati ai giganteschi crateri che, per localizzarli, corrispondono alla baia di Chesapeack negli Usa, e di Popigai in Russia, il terzo è un evento non ancora ben definito, ma senz’altro avvenuto.

Dentro il brano il momento degli impatti, viene esaltato dal suono di un’intera orchestra, mentre quando arriva il turno di mettere in nota eventi minori, come le eruzioni vulcaniche, c’è soltanto un semplice colpo di piatti.

Nel caso di Across the boundaries, in particolare, l’evento rappresentato è l’ultimo giorno dell’era dei rettili, perché la melodia è stata tratta dalle sequenze che contengono l’impatto avvenuto al limite tra il Cretaceo e il Terziario, 65 milioni di anni fa.

Le sequenze analizzate sono state prese sia dagli affioramenti di Zumaya, in Spagna, che a Gubbio. I parametri prendevano in esame il carbonato di calcio, la suscettibilità magnetica e la ciclicità prima del botto e poi subito dopo, quando lo stile della stratificazione cambia all’improvviso.

I calcari diventano molto densi, perché l’evento provoca l’estinzione di massa del plancton, ma un’unica specie si salva ed ecco che comincia a riprodursi, indisturbata e senza concorrenza, in maniera pazzesca. Le due sezioni, quella di Gubbio e quella di Zumaya, vengono correlate in base al tempo geologico, come due registrazioni diverse dello stesso evento.

Ecco che, subito dopo il botto, le voci del coro aumentano e si fanno un po’ misteriose, quasi inquietanti: ciò che significa morte e distruzione per il 70 per cento delle specie del pianeta corrisponde d’altra parte all’aumento del carbonato di calcio prodotto da quell’unica specie superstite di foraminiferi.

Ed è quest’ultimo che noi ascoltiamo come coro crescente. Jumping sardine invece è un brano dedicato alla chiusura dello Stretto di Gibilterra, sette milioni di anni fa, e la conseguente eutrofizzazione del Mediterraneo – che da quel momento viene isolato dall’Oceano Atlantico – così come la “ricorda” la sezione della Sardella, sulla riviera del Conero.

La crisi dura sette-ottocentomila anni e la melodia ce la racconta, molto più in breve, in tutte le sue sfumature. In realtà è davvero impossibile raccontare in dettaglio tutti i brani (che del resto, come tutta la musica, devono essere ascoltati), limitiamoci a dire soltanto che il disco si chiude con un’altra poetica Gina, Waves and layers for Gina, la traduzione del rumore del mare su di una curva smussata di carbonato di calcio.

www.diario.it

Alessandro Montanari è direttore dell’Osservatorio Geologico di Coldigioco (Comune di Apiro, Macerata), un centro privato fondato nel 1992 con David Bice e Walter Alvarez. Si occupa di rilevamento geologico, stratigrafia, sedimentologia, tettonica, geologia strutturale, geologia regionale e musica geofonica. Ha organizzato numerosi corsi brevi e stage per conto di università e istituti europei e statunitensi. È autore di oltre 80 articoli scientifici pubblicati su riviste internazionali. Ha curato l’editing di alcuni volumi scientifici. Collabora in vari progetti di ricerca sulla stratigrafia integrata e sulla paleoclimatologia con istituti europei e statunitensi. E’ anche autore di testi di divulgazione scientifica e ha collaborato alla realizzazione di alcuni programmi televisivi di divulgazione scientifica. Tiene seminari integrativi nei licei scientifici delle Marche e collabora con ‘Associazione Nazionale degli Insegnanti di Scienze Naturali.

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